L’itinerarium di Dante nei regimi della psiche

di Claudio Widmann

Si ringrazia il Prof. Claudio Widmann per aver concesso alla nostra rivista telematica gratuita di pubblicare questo suo lavoro il cui copyright resta esclusivamente a lui stesso

L’inconscio

Narra Boccaccio che nemmeno le donnette di Verona intendevano il viaggio di Dante alla lettera. Accoglieremo quindi la sollecitazione dello stesso Dante a cogliere il senso allegorico e anagogico della sua opera, leggendola attraverso la griglia della psicologia del profondo e intenderemo il suo itinerario come un viaggio della coscienza nell’ultramondo della coscienza.

Freud -come Dante- risale a Virgilio per trovare un’immagine efficace dell’inferno. Una delle citazioni più “twittate” della Traumdeutung (“se non riuscirò a piegare gli dei del cielo, smuoverò le potenze dell’inferno”), difatti, riprende il verso virgiliano si flectere nequeo superos, Acheronta movebo. Senza bisogno di ulteriori suggestioni l’inferno ci si propone -così- come il territorio dell’inconscio; nelle sue province si riscontrano le diverse fattispecie di latitanza della coscienza.

L’osservazione si applica già all’anti-inferno, territorio di caos, confusione e tumulto in aura sanza tempo tinta. È il regno degli Ignavi, sciaurati senza coscienza di sé, che mai non fur vivi e che attraversarono una parvenza di vita sanza ‘nfamia e sanza lodo, a Dio spiacenti e a’ nemici sui. È lo stato primitivo della participation mystique di individui indistintamente appartenenti alla tribù, di persone più che identificate con l’albero totemico, confusamente identiche ad esso. È la condizione fusionale del neonato, ancora indistinto dalla mamma, che ancora non avverte dove finisce il proprio corpo e inizia quello materno, che non percepisce un se-stesso distinto da lei. È il regime psichico dell’uomo-massa, che giace indifferenziato nell’impasto fusionale arcaico, ciecamente fuso nella psiche collettiva e che confusamente fluttua in quello stato che Jung -con accezione diversa rispetto a Freud- chiama pre-conscio, dove -cioè- la coscienza ancora non s’è distinta dal magma psichico delle origini.

È l’inconscio non-rimosso di Freud, poiché -come egli scrive- “l’inc non coincide col rimosso” e, come egli prontamente precisa, “rimane esatto asserire che tutto ciò che è rimosso è inc, ma non che tutto ciò che è inc è rimosso” (1922 p. 26). “L’inconscio è la qualità che, sola domina l’Es”, ma “chiamiamo rimosso solo [quest’ultima] parte dell’Es. … Queste due categorie di contenuti dell’Es all’incirca coincidono con la divisione in ciò che originariamente è presente in maniera innata e ciò che viene acquisito durante lo sviluppo” (1938).

Nella topografia dell’inferno dantesco il regime pre-conscio, non-rimosso della psiche trova continuazione nel Limbo, lembo di vita psichica ai margini della coscienza. Uno stato anch’esso arcaico di sospensione esistenziale che segna color che son sospesi in forme patologiche “non produttive”, non travagliate da sintomi positivi imponenti, ma in un duol senza martiri, che l’aura etterna facean tremare. Dalla seconda metà del Novecento la psicologia del profondo si è specificamente interessata a le turbe, ch’eran molte e grandi, e di infanti e di femmine e di viri, che si rivolgono all’analisi non perché sentono una sofferenza precisa, ma perché patiscono la sofferenza del non sentire.

E come il nobile castello del Limbo dantesco ospita spiriti magni e genti di grande autorità ne’ loro sembianti, così individui high functioning brillano nel limbo simbolico dell’alessitimia o dello spettro autistico. O in quello stato pseudo-edenico di “innocenza maligna”, fittiziamente salvaguardato al prezzo di una dissociazione profonda, che impedisce di prendere contatto con la realtà vera, fatta di dolore al limite della sopportazione e di delusioni non concepibili. Talvolta è dato vedere queste forme estreme di “innocenza maligna” nel quadro delle risposte a un trauma acuto o a traumi di minore entità, ma sistematicamente ripetuti.

Ma qui, dove la dissociazione della coscienza si fa riconoscibile, si varca la soglia freudiana tra non-rimosso e rimosso o quella junghiana tra pre-conscio e in-conscio. Qui, dice Dante, vegno in parte ove non è che luca, ove la coscienza non getta la sua luce.

Per descrivere quella parte egli si ispira manifestamente all’Etica Nicomachea di Aristotele e organizza la voragine dell’inferno nei tre vasti settori dell’incontinenza, della bestialità e della malizia. Sono attitudini della psiche e l’accento viene posto sull’atteggiamento assai più che sui contenuti.

Incontinenza è l’incapacità di contenere l’impulso; è il mancato controllo della pulsione indipendentemente dal tipo di pulsione. Può essere quella orale dei Golosi o quella anale degli Avari o quella erotica della delicatissima ma inconsistente Francesca e dei suoi compagni, che la ragion sommettono al talento: che subordinano considerazioni, valutazioni e scelte alla voglia, al principio di piacere. In ciò sta l’essenza dell’incontinenza: nel prevalere dell’inconscio pulsionale sulle funzioni regolative della coscienza. E l’individuo è trascinato dall’impulso come gli spiriti danteschi sono trasportati da un fiato ventoso che di qua, di là, di giù, di su li mena. Senza posa e senza senso.

Bestialità è più che incontinenza. Manca ancora il controllo sulla pulsione, ma non per indulgere al principio di piacere; qui è in gioco una pulsione più venefica, tesa alla distruzione e alla de-composizione. La matta bestialitade per Dante non è Eros, è Thanatos. Individui agiti e posseduti dalla pulsione di morte sono attuffati nel fango dello Stige o in un fiume di sangue bollente a profondità decrescente di distruttività. Spaziano dalle figure estreme dei tiranni a quelle anonime di ordinari guastatori e mostrano che l’inclinazione alla destrutturazione è intrinseca all’esistenza e spesso fine a se stessa. È il regime della psiche che Jung indica con il termine evocativo di possessione, in cui risuona l’antica possessione dell’indemoniato; lì, nelle parole di Freud, “noi veniamo ‘vissuti’ da forze ignote e incontrollabili” (1922 p. 35).

Non pare senza significato che il regno dell’aristotelica bestialità non sia popolato da bestie, ma da mostri come il Minotauro, i Centauri, le Arpie. Valga a commento la lapidaria considerazione di A. Mazzarella (1991): quando la coscienza regredisce nell’inconscio, l’uomo non torna bestia, diventa mostro.

E sulle spalle del mostro Gerione Dante si lascia alle spalle il mondo di Thanatos, della possessione distruttiva e s’avventura in regni più profondi e più malvagi.

Malizia, difatti, o con forza o con frode altrui contrista (If., XI, 24): persegue la volontà di male con la violenza oppure con la frode e la malizia perpetrata con la frode si trova in uno strato più infero, più arcaico e regressivo di quella perpetrata con la forza.

Il linguaggio analitico direbbe che negli spiriti violenti la coscienza è agita dalla pulsione, ma in quelli fraudolenti è connivente con la pulsione. É presente a se stessa e opta per aderire alla volontà di male; la matta bestialitade è possessione, mentre la froda è connivenza. Non so se possediamo un lessico sufficientemente differenziato per descrivere stati psichici dove già c’è coscienza, ma una coscienza che non coincide con la consapevolezza. Con una nota metafora, Jung aveva spiegato che se dico a una persona “Guardi che ha un cobra in tasca” e quella persona risponde: “Toh, è proprio un cobra!” e se ne va mettendo le mani in tasca, ha coscienza del cobra che porta con sé, ma non ne ha consapevolezza.

Dante riserva un terzo degli Acheronta al regime di connivenza in cui l’Io, con grande incoscienza, mette gli strumenti della coscienza al servizio delle pulsioni. Nell’inferno inferiore il poeta stipa ruffiani, barattieri, ladri, falsari, imbroglioni d’ogni risma e tutte le fattispecie di traditori. E nel fondo più fondo, avvolge la malizia frodolenta nella ghiaccia eterna. Merita riflessione quest’estremo ritratto dell’inconscio, che non arde del fuoco della pulsione, non smania nella frenesia della compulsione, ma è immobilismo e ibernazione. Nelle sue forme più fallimentari, la connivenza e la stessa convivenza tra conscio inconscio sono possibili solo al prezzo di un congelamento vitale.

È tragicamente icastica la figura di frate Alberigo (traditore di parenti) che con puntualità psicoanalitica illustra a Dante questa estrema condizione esistenziale. Come ‘l mio corpo stea nel mondo su -spiega- non lo so, ché spesse volte l’anima ci cade prima che la Moira recida lo stame della vita. Così, nel mondo della quotidianità, uno e mangia e bee e dorme e veste panni, ma l’anima già gli è tolta, lasciando un diavolo in sua vece, in modo che in corpo par vivo ancor di sopra. Pare vivo, ma propriamente non lo è.

Scissione, dissociazione, depersonalizzazione sono termini che si affannano a descrivere l’egemonia estrema dell’inconscio in una psiche (in greco: anima!) già morta. Forse occorre riesumare l’antica parola alienazione, per descrivere un individuo che par vivo perché alienato, perché un aliud, una forza impersonale e aliena alla coscienza, lo muove.

L’ipostasi di quell’aliud, il responsabile di tutta la ghiaccia infernale, è il più eccelso dei diavoli, Lucifero. Agitando lentamente le sue ali di vispistrello enormi più che vele di mulino a vento, muove un vento infero, un anemos che i gela l’animo come il lago di Cocito per l’eternità. E in eterno Lucifero maciulla tre traditori esemplari, con le tre bocche delle sue tre facce dell’unica sua testa. Lucifero, difatti, è uno e trino, è una divinità infera; è un diavolo (da dia-ballo, che significa dividere, disgiungere), una potenza dissociata della psiche, che opera in totale autonomia, producendo fatale devastazione.

Nel superarlo, Dante lascia a noi un interrogativo: questa personificazione del Male rappresenta la qualità non-conscia di certi contenuti psichici (la qualità “che, sola domina l’Es”) o è un agente psichico? Inconscio -in altre parole- ha valore di attributo, è una qualità che l’Io ascrive a ciò di cui non ha coscienza, o inconscio ha valore di sostantivo, è un soggetto psichico autonomo, che l’Io non conosce, ma che opera in maniera organizzata, coordinata, mirata? È probabilmente noto che Jung riconosce la qualità inconscia di particolari contenuti psichici (inconscio come attributo), ma riserva il suo interesse preminente a L’inconscio con l’articolo, come soggetto psichico (inconscio come sostantivo).

L’Io

Il purgatorio sposta l’attenzione sulla fenomenologia di un soggetto psichico diverso da L’inconscio. Si tratta di “un nucleo organizzato e coerente di processi psichici cui è legata la coscienza” per Freud (1922, p. 39) e di un “complesso di rappresentazioni che costituisce il centro del campo della coscienza” per Jung e che “sembra possedere un alto grado di continuità e di identità” (1921 p. 467). A questo soggetto psichico entrambi danno il nome di Io e noi possiamo guardare al purgatorio come alla cantica dell’Io.

Lo scenario muta: fuor de l’aura morta accoglie Dante il dolce color d’oriental zaffiro di un’alba tutta simbolica, di una rinascita tutta psicologica. Lo bel pianeto solare facea rider tutto l’oriente e sopraggiungono anime oranti e liete di sapersi destinate alla salvezza. Lì Dante incontra un amico, Casella, che in vita metteva in musica canzoni e sonetti di Dante e che qui canta Amor che ne la mente mi ragiona. Casella canta così soavemente che tutti rimangono fissi e attenti a le sue note, se non fosse per il veglio Catone, che richiama tutti al loro compito: che è ciò spiriti lenti? qual negligenza, quale stare è questo?

All’Io non è dato attardarsi in vacazioni di alcun tipo, nemmeno in evasioni estetizzanti o inebrianti o esaltanti. La clinica è impietosa nel mostrare gli esiti delle evasioni dell’Io nell’esaltazione o nell’ottundimento, nell’offuscamento alcolico, tossico, psichedelico, digitale o nell’eccitazione orgiastica, nella febbre adrenalinica di attività estreme e di rischi quotidiani.

L’Io è recettore di istanze sia esterne (principio di realtà) sia interne (Super-io), ma in entrambi i casi è sollecitato da forze contrapposte ed è sottoposto a pressioni antitetiche. La sua fenomenologia è fenomenologia della fatica; la sua rappresentazione è quella di Atlante, che porta sulle spalle il peso del mondo o quella dantesca di cariatidi, la quale fa del non ver vera rancura nascere ‘n chi la vede: desta nell’osservatore un senso autentico di sofferenza, anche se si tratta di una sofferenza rappresentata e non reale. 

La prima difficoltà dell’Io concerne l’orientamento. Nel purgatorio Virgilio, tradizionalmente inteso come l’allegoria della mente razionale, non conosce la strada. Era già sceso agli inferi, ma mai era salito sul monte della purificazione ed è incerto, chiede informazioni, attende indicazioni, si orienta sommariamente con il sole. Orientare la vita è funzione primaria dell’Io, che l’Io non si sente mai preparato ad assolvere.

Nel purgatorio come nella vita psichica la forma più elementare dell’orientamento è spazio-temporale. L’orientamento nello spazio espone alle incertezze appena indicate, quello nel tempo impone scansioni opportune e talvolta obbligate. Nell’aura sanza tempo tinta dell’inferno non c’è scansione né di ore né di giorni, ma nel regno dell’Io c’è delimitazione di spazi e scansione di tempi. Qui, spiega Sordello, sol questa riga non varcheresti dopo ‘l sol partito e non per altra ragione che col non poder la voglia intriga: lì, il venir meno del desiderio si fa tutt’uno con l’impossibilità.

Per noi è da riflettere se spazio e tempo sono realtà oggettive o coordinate che la coscienza dell’Io si dà per fare coscienza. Nella Commedia spazio e tempo sbiadiscono fino alla dissolvenza nei regimi extra-egoici sia dell’inferno sia del paradiso; nel pensiero di Jung “spazio e tempo, in sé e per sé, non esistono affatto” (1952 p. 465); sono prodotti della coscienza che noi riteniamo proprietà intrinseche alla realtà.

Nella Commedia la scansione del tempo assume immediatamente la forma archetipica del ritmo, a cominciare dal ritmo veglia sonno: nel purgatorio c’è un tempo per stare e un tempo per andare. Né in inferno né in paradiso Dante dorme. Nelle tre notti che passa in purgatorio, invece, tutte e tre le notti dorme e tutte e tre sogna, suggerendo che la vita psichica si sviluppa sul doppio binario della coscienza e dell’inconscio e che l’Io ha la funzione di intrattenere relazioni tra coscienza e inconscio.

Nel nostro contesto è anche interessante rilevare che nel purgatorio, e solo lì, Dante proietta un’ombra; le anime penitenti ripetutamente lo notano e richiamano l’attenzione sulla sua ombra. Benché egli la intenda in accezione assolutamente fisica, il parallelo con il concetto junghiano di Ombra è puntuale e, d’altra parte, Jung modella la definizione psicologica di Ombra sul corrispondente fenomeno fisico. Con un metafora fotografica l’Ombra può essere immaginata come il negativo dell’Io: è l’insieme di ciò che è incompatibile con la coscienza, i valori, gli ideali dell’Io. L’Ombra è l’alter ego dell’individuo, è un “altro Io” che segue le logiche dell’inconscio anziché della coscienza. Nella sua incompatibilità con l’Io l’Ombra è necessariamente inconscia, nella sua specificità attiene all’inconscio rimosso.

Oggetto di rimozione sono tutti i contenuti tradizionalmente additati dalla psicologia del profondo. Dante li disloca lungo il purgatorio seguendo il criterio, ai suoi tempi dominante, dei “vizi capitali”. La loro prima concettualizzazione risale a Evagrio († 399), due secoli più tardi viene avvallata da Gregorio Magno († 604), poi viene ufficializzata dal concilio Laterano (1215) e codificata giusto all’epoca di Dante da Tommaso d’Aquino (1265). La sequenza della cantica dantesca non rispetta del tutto fedelmente la psicodinamica ricostruita dalla psicologia del profondo, ma rispecchia con precisione i contenuti pulsionali:

superbia          invidia       gola            avarizia      ira                       lussuria        accidia

narcisismo       invidia       oralità        analità        aggressività        sessualità     posizione depressiva

L’incontro di Dante con rappresentanti di ciascun vizio capitale scolpisce gli aspetti psicologici dei loro contenuti. Si pensi all’invettiva contro il narcisismo: O superbi cristian, miseri lassi! non v’accorgete voi che noi siam vermi, nati a formar l’angelica farfalla? Di che l’animo vostro in alto galla, poi che siete quasi antomata in difetto, sì come vermo in cui formazion falla?

Si pensi all’incisivo ritratto dell’invidia: fui de li altrui danni più lieta assai che di ventura mia, dice  Sapia senese; se veduto avesse uom farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso, dice Guido del Duca. Secoli prima di M. Klein le voci congiunte di questi due personaggi mostrano che l’essenza psichica dell’invidia sta nel godere del male altrui e nel rodersi per l’altrui piacere.

Si pensi alla sommessa, ma cruciale distinzione tra coloro che sono preda della distruttività e coloro che son sanz’ira mala. Superata l’aggressività puramente pulsionale e gratuita nell’inferno, nel regime dell’Io si prospetta la possibilità e l’utilità dell’aggressività non mala, sottratta alla volontà di male. 

Lungo tutto il monte purgatorio, oltre ai contenuti, è paradigmatico il confronto serrato tra Dante e le anime penitenti, immagine parlante del confronto sistematico tra Io e Ombra, tra la coscienza e il rimosso. Via via che l’Io sviluppa tale confronto e affina le proprie funzioni, si consolida, acquisisce forza e solidità. Dante ritrae questa trasformazione con la sua maggiore disinvoltura e minore fatica nel salire: questa montagna è tale –scrive– che sempre al cominciar di sotto è grave; e quant’om più va sù, e men fa male. In cima alla montagna, non solo è più sostenibile il lavoro dell’Io, ma è  più consolidato il suo insediamento all’interno della personalità.

La nostra psicologia non sa descriverlo meglio di Virgilio, quando si rivolge a Dante

e dice: 

«Il temporal foco e l’etterno

veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno.

            Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

            Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io te sovra te corono e mitrio».

È finita la purgazione, non è finita la cantica del purgatorio, che in cima al monte colloca l’Eden. Tuttavia, dopo l’“incoronazione” di Virgilio inizia il paradiso, prima quello terrestre e poi quello celeste. Il regime dell’Io confina con altri regimi della psiche.

Il Sé

Dante canta il realismo psicologico assai più che l’idealismo religioso. Nel locus amœnus dell’eden non ambienta l’esultante ricongiunzione con Beatrice, ma il risentito rimprovero di Beatrice perché egli, anziché rispondere ai nobili desiri che lo menavano ad amar lo bene, si disperse in agevolezze e nel falso lor piacer.

Se nella topografia psicologica di Dante il monte purgatorio è il regno simbolico dell’Io, sulla sommità di quel monte l’Io viene messo dinnanzi alla sua funzione più raffinata, l’autotrascendenza.

L’Io non è chiamato unicamente a contenere le pulsioni dell’Ombra e ad assicurare appagamento alle pulsioni dell’Io, ma a perseguire mete che stanno al di là delle gratificazioni immediate, a guardare al di là delle agevolezze soggettive e del falso lor piacer, perfino a sormontare le proprie concezioni o convinzioni. Questa funzione è indicata da Freud come la capacità di coltivare un piacere che sta Al di là del principio di piacere (1920); da Jung è chiamata capacità di auto-trascendenza, nel senso letterale di “andare oltre se stesso”; da Dante è indicata come trasumanar: nel suo paradiso l’Io trasumana nel regime psichico del Sé.

Jung usa il termine Sé in un’accezione diversa da quella che successivamente il termine assunse, per esempio, nel pensiero di Winnicott o di Kohut; più ancora da quella tardivamente adottata dal cognitivismo. Sé è concetto centrale e talora sfuggente nel pensiero di Jung; indica la totalità fisica e psichica, psicologico-individuale e psicologico-collettiva, conscia e inconscia di un individuo. Ma gli scenari del paradiso ritraggono il Sé in maniera più esplicativa di ogni definizione.

Il paradiso della Divina Commedia è opera di sincretismo: i cieli di Aristotele sono integrati nell’astronomia tolemaica, completati con gli apporti della Scolastica, modificati dalla creatività di Dante.

Linee di continuità collegano le tre cantiche, tracciando simmetrie manifeste e sotterranee. Per esempio, congiungono il motivo infernale dell’ignavia con quello purgatoriale della pigrizia morale e con quello celeste degli spiriti che vennero meno ai voti; oppure collegano il motivo dei dannati per violenza, con quello degli spiriti iracondi ma sanz’ira mala, con quello degli spiriti combattenti nel cielo di Marte. Il percorso anagogico di Dante è un iter di affinamento delle pulsioni; lungo di esso l’aspetto originariamente grezzo dell’inconscio si ingentilisce e i rapporti con la coscienza si rimodellano, passando da forme di possessione e connivenza nell’inferno a forme di confronto e dialettica nel purgatorio, a forme di integrazione e coniunctio nel paradiso.

È icastica la progressione che si registra nei primi tre cieli. Nella sfera della Luna Piccarda Donati è assunta in cielo, sebbene non si sia opposta con sufficiente fermezza a chi la strappò ai voti monacali. Nel cielo di Mercurio, l’imperatore Giustiniano compare tra gli spiriti attivi quale autore del Codice Giustinianeo, concepito perché onore e fama li succeda. Nel cielo di Venere Cunizza da Romano rifulge tra gli spiriti amanti, per aver esplorato tutta la gamma delle vibrazioni amorose, da quelle passionali a quelle oblative. Nel crescendo di questi cieli Piccarda è beata nonostante l’Ombra, Giustiniano in forza della sua Ombra (narcisistica, di fama) e Cunizza in virtù della sua Ombra (erotica). Il Sé è completezza psichica e la completezza non solo tollera, ma esige la compartecipazione dell’Ombra, un’Ombra attenuata e ingentilita nel corso della lunga confrontazione compiuta sulle pendici del purgatorio.

Curiosamente, l’astronomia ci fa presente che il pianeta di Venere, dove Dante incontra Cunizza, è l’ultimo ad essere raggiunto dal cono d’ombra proiettato dalla Terra. È anche l’ultimo in cui nella Commedia si pone il tema dell’integrazione dell’Ombra; di lì in poi Dante sprofonda in un ignoto, che assume tratti sempre più specifici dell’inconscio non-rimosso.

Già nel cielo di Venere, nel dialogo tra Dante e Carlo Martello, si profila un aspetto congenito (e dunque non rimosso) dell’inconscio. Lì si afferma che ogni individuo possiede fin dall’inizio una propria configurazione; non diversamente M. Klein riconosce la natura “chiaramente costituzionale” di aspetti psichici e francamente ammette che l’intervento psicoanalitico talora è “impotente di fronte al fattore costituzionale» (1978, p. 124). Jung si sbilancia maggiormente, ipotizzando un principium individuationis depositario della singolarità dell’individuo, presente nell’inconscio delle origini, intrinseco alla sua totalità organismica e dunque tratto essenziale del Sé.

Nell’incontro con Cacciaguida (cielo di Marte) l’inconscio si espande a dimensione transpersonale, diventa inconscio collettivo. Voi, dice Dante al suo trisavolo, mi levate sì ch’i’ son più ch’io, affermando espressamente che l’individuo è più che se stesso e che la psiche è più che individuale. Nella lezione junghiana l’inconscio profondo non è circoscritto all’individuo, ma si estende alla collettività; non è storico, ma metastorico e transgenerazionale. Oggi l’ipotesi che linee di continuità psicologiche attraversino le generazioni non è soltanto junghiana (è condivisa, ad esempio, da analisti freudiani come Abraham e Torok), ma nella psicologia junghiana essa trova la sua espressione più esplicita. Nella sua autobiografia Jung aveva confessato: “Ho la netta sensazione di essere sotto l’influenza di cose o problemi che furono lasciati incompiuti o senza risposta dai miei genitori, dai mei nonni, dai mei più lontani antenati” (1961, p. 281).

Appartenere a una dimensione psichica che contiene un’impronta soggettivante, che ha tratti costituzionali, transgenerazionali e collettivi, confronta l’individuo con il proprio destino. Ma nel contesto analitico l’antica idea di destino va rivisitata alla luce della psicologia del profondo.

Il destino può essere riletto come percorso di vita attraverso il quale “si diventa quel che si è” (Nietzsche). Junghianamente questo percorso viene definito processo individuativo ed è il processo attraverso cui si declina nella concretezza e nella coscienza quel principio soggettivante che è presente ab initio nel Sé.

Tuttavia, va detto espressamente che il processo di individuazione non può essere identificato con la sola attuazione del principio di individuazione. Onde evitare di scambiare Hitler per una persona grandemente individuata, solo perché realizzò a livelli di eccellenza la sua inclinazione soggettiva (Stein 2010).

Per Jung il processo di individuazione –core di ogni iter non solo analitico, ma esistenziale- è un percorso di integrazione della totalità individuale e questo implica il superamento di ogni impostazione esclusiva, sia essa dettata da pulsioni inconsce, da valori coscienti o da ideali dell’Io. Implica anche la composizione delle antinomie, perché entrambi i poli di un’antinomia appartengono all’homo totus. Esclude, implicitamente, ogni unilateralità, come afferma Adamo quando dice: “Non il gustar del legno, ma il trapassar del segno fu la cagion della mia caduta”: non l’aver mangiato il frutto dell’albero, ma l’aver passato il segno. L’unilateralità è sempre un trapassar del segno ed è cagion d’involuzione, anche quando è unilateralità della coscienza, della ragione o di qualunque altra funzione gradita all’Io. 

Il processo individuativo come “relazione cosciente con tutti gli elementi della personalità” è una formula illuminata, ma nel concreto dell’esistenza implica una difficoltà estrema e un’impossibilità strutturale. Significa essere contemporaneamente consci e inconsci, soggettivi e collettivi, introversi ed estroversi. Chiede di dare concretezza alla complexio oppositorum che costituisce la psiche e ciò non è solo impossibile, è letteralmente inconcepibile.

I passaggi più avanzati del paradiso sono scanditi dalla confessata inanità di Dante nel descrivere un’esperienza che simbolicamente è esperienza del Sé e acme del percorso individuativo. Nel punto più alto della sua visione, egli rivolge alla Vergine una santa orazione intrisa di antinomie: vergine e madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più di ogni creatura, colei nella quale il creatore diventa sua creatura. È un appello a una logica mentale diversa da quella ispirata dalla coscienza dell’Io, capace di abbracciare il paradosso, di ammettere l’esistenza degli inconciliabili.

La lunga frequentazione di fisici teorici come Einstein e Pauli familiarizza Jung con realtà e linguaggi, dove l’energia “è” materia, lo spazio si dilegua nel principio di indeterminazione, la freccia del tempo si inverte ed eventi futuri determinano quelli passati. Aspetti della realtà fisica e linguaggi delle scienze naturali portano Jung a concepire il Sé come una realtà psichica intrinsecamente antinomica. Per comprenderla occorre assumere un’ottica altra, come quella della fisica quantistica o come quella che Matte Blanco (1975) rintraccia in certi assiomi della logica matematica. Occorre una coscienza intrisa di inconscio.

Quando Dante sente la propria coscienza illuminarsi di inconscio e dilatarsi tanto da abbracciare il mysterium coniunctionis in cui tutti gli incompatibili si congiungono, lì egli ha la suprema visio Dei. Vede tre cerchi concentrici, sovrapposti, di tre colori diversi, che si rispecchiano l’un l’altro. Troppe volte Jung ha rimarcato che l’immagine di Dio elaborata dall’uomo non è empiricamente distinguibile dalla rappresentazione del Sé. In quella visione Dante tutto s’affigge, finché ‘l suo viso in lei tutto fu messo e dentro da sé, del suo colore stesso, gli pare pinta de la nostra effige. È l’ultimo, più alto lampo di genio psicologico: guardando dentro Dio vede l’Uomo; nel profondo del Sé vede riflesso l’Io. Il mysterium di Dio coincide con il mysterium dell’Uomo.

È antichissima, di certo antecedente a Lacan, la relazione tra immagine allo specchio e immagine del Sé; amplificando i rimandi antropologici, M.-L. von Franz (1978) riassume dicendo che il Sé ci rimanda l’immagine di ciò che noi siamo oggettivamente e che la soggettività di osservatori esterni o interni non potrà mai cogliere.

Riferimenti Bibliografici​

Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere, Torino, Boringhieri, 1977.

Freud S. (1922), L’io e l’Es, Torino, Boringhieri, 1977.

Freud S. (1938), Compendio di psicoanalisi, Torino, Boringhieri, 1979.

Jung C. G. (1921), Tipi psicologici, Torino, Boringhieri, 1969.

Jung C. G. (1952), La sincronicità come principio di nessi acausali, Torino, Boringhieri, 1976.

Jung C. G. (1961), Ricordi, sogni, riflessioni, Milano, Il Saggiatore, 1965.

Klein M., Scritti, Torino, Boringhieri, 1978.

Matte Blanco I. (1975), L’inconscio come insiemi infiniti, Torino, Einaudi, 1981.

Mazzarella A., Alla ricerca di Beatrice, Milano, In-Out, 1991.

Pieri F., Dizionario junghiano, Torino, Boringhieri, 1998

Stein M.  Il principio di individuazione, Bergamo, Moretti & Vitali, 2010.

von Franz M.-L. (1978), Rispecchiamenti dell’anima, Milano, Vivarium, 2012.

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