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Il Workshop Cinema e Sogni

Il workshop cinema e sogni è un nuovo strumento didattico che ho creato per gli operatori sanitari che lavorano con i malati di cancro ed i loro familiari con l’obiettivo specifico di promuovere la loro formazione continua e di prevenire il loro rischio di burnout. Il quadro di riferimento in cui ho inventato questo workshop è quello dei gruppi di tipo Balint che ho organizzato a partire dagli anni Novanta all’interno dei corsi di Psico-Oncologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma, ed in cui i partecipanti potevano presentare le loro esperienze cliniche più “difficili”. In questo setting succedeva che, a volte, il gruppo andava in stallo, durante la faticosa elaborazione di un caso clinico complesso e che riusciva a riprendere il lavoro ed uscire dal blocco quando uno dei partecipanti evocava il racconto della scena di un film.

Ho trovato un nesso tra questa situazione, ripetuta nel tempo, ed una situazione simile che si incontra nella psicoterapia psicoanalitica quando un paziente non sa più cosa dire, si sente arrivato ad un punto morto, e lo stallo viene risolto solo grazie al fatto che il paziente porta in seduta e condivide un sogno con il terapeuta e il percorso di cura si riapre, come per incanto.

Questa associazione mi ha ispirato ad inventare un nuovo strumento formativo che fonde l’atmosfera elaborativa di gruppo di tipo Balint con la “magia” catartica del cinema (la “fabbrica dei sogni”) e la capacità di problem solving che caratterizza i sogni (donde il proverbio “la notte porta consiglio”).

Alla fine di ogni corso in Psico-Oncologia, ho iniziato così ad organizzare questo workshop originale in cui tutti i partecipanti ad un’esperienza formativa sono invitati ad incontrarsi, di notte, nell’auditorium o nel cinema di un ospedale (ero favorito dal fatto che il Policlinico Universitario “A. Gemelli” ha il più grande MediCinema d’Europa), a guardare un film (possibilmente introdotto dal regista, o da un attore, o da un altro membro del cast e della troupe) e poi andare a dormire avendo in mente, la mattina dopo, si tornerà tutti insieme nella stessa location per condividere ipropri sogni in setting di gruppo. Ero fiducioso che l’elaborazione degli elementi comuni dei sogni avrebbe rivelato blocchi, inibizioni ed ansie professionali, aiutando tutti i partecipanti a superare tali difficoltà. Ovviamente i sogni venivano ascoltati ed elaborati non come sogni personali, ma come sogni professionali.

È interessante notare che, quando l’idea mi è venuta in mente, non ero consapevole che qualcosa di molto simile era già stato inventato da Gordon Lawrence (1998) che aveva notato l’importanza sociale dei sogni e aveva creato il social dreaming (SD)

Gordon Lawrence era interessato a trovare una tecnica per aiutare le organizzazioni a superare il loro stallo e promuovere la loro creatività. Era giunto all’idea del social dreaming grazie all’influenza che ebbe su di lui una coraggiosa ricerca di Charlotte Beradt (1966) sui sogni del popolo tedesco negli anni tra il 1933 e il 1939, sogni che anticipavano la dittatura di Hitler e la guerra. Da quella ricerca straordinaria Lawrence trasse l’idea che i sogni non hanno solo un significato personale ma sono anche influenzati da eventi culturali e sociali e potrebbero rivelare fantasie e dinamiche che le persone, inconsapevolmente, percepiscono. Mentre Gordon Lawrence aveva uno scopo sociale, nello sviluppo della sua ricerca e dei suoi programmi istituzionali, io avevo uno scopo specificatamente formativo e ho sviluppato quindi uno strumento diverso.

Quando uno dei miei studenti dei Corsi di Psico-Oncologia (Domenico Agresta) mi ha parlato di Gordon Lawrence e del suo SD, ho pensato di chiamare il mio modo di usare i sogni in un contesto gruppale Guided Social Dreaming (GSD). Il mio workshop movies and dreams era infatti connesso non solo con l’idea di Lawrence, ma era anche concepito nella stessa lunghezza d’onda della supervisione della psicoterapia per come questa era stata teorizzata da Ogden (2005).

Secondo Thomas Ogden, il processo di supervisione è una forma di guided dreaming dove il supervisore aiuta il terapeuta a “sognare” il paziente, a creare una fiction (una storia? Una simulazione?) che aiuti terapeuta e supervisore a entrare in contatto con l’esperienza emotiva della terapia. In entrambi i contesti (i gruppi di social dreaming guidati e la supervisione individuale di Ogden) l’obiettivo è promuovere nei partecipanti il miglioramento della capacità di pensiero associativo e creativo.

Il ruolo dei Conduttori, nel GSD, è quello di aiutare tutti i membri del gruppo a vedere le connessioni, le associazioni, i collegamenti tra le scene del film, i sogni ispirati dal film e i ricordi
di esperienze cliniche evocati dal film e dai sogni con la finalità di aprire la mente ad un linguaggio diverso: il linguaggio dell’inconscio. Dal mio punto di vista, se diventi più creativo e più familiare con il pensiero associativo gestisci meglio le tue emozioni così come le emozioni che i pazienti trasferiscono in te, una dinamica inconscia essenziale per prevenire il burnout in tutte le categorie di operatori sanitari.

Descriverò il workshop cinema e sogni facendo riferimento ad un’esperienza precisa che è quella del workshop che per alcuni anni di seguito ho condotto nell’ambito del Corso di Psicologia di
Comunità del Corso di Laurea in Infermiere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma. In particolare, farò riferimento ad un workshop del 2018, centrato sulla proiezione del film Wit (in italiano ‘La forza della mente’) e di cui ho scritto, in inglese, nel mio ultimo libro (Nesci, 2023).

 

Wit (Mike Nichols, 2001) da un lavoro teatrale di Margaret Edson (1991–1992).

 

Il film racconta la storia della professoressa Vivian Bearing, una studiosa di letteratura inglese del XVII secolo che è un’esperta dei celebri ‘Holy Sonnets’ di John Donne (1609). Vivian è totalmente impegnata nella sua ricerca, al punto da non aver dedicato tempo alla costruzione di una propria famiglia e da aver perso, a volte, anche la capacità di provare empatia per i suoi studenti. Da alcune scene, siamo indotti a pensare che si fosse identificata eccessivamente con la sua intransigente mentore-insegnante (la professoressa Ashford). Vivian, da studentessa, si laureò con una tesi sugli ‘Holy Sonnets’ di John Donne, sotto la supervisione di questa donna estremamente esperta ma ferma e rigida (la professoressa Ashford). Nello specifico, la tesi di Vivian era sul sonetto ‘Death be not proud’ (Morte, non essere orgogliosa…), in cui il poeta immagina di sconfiggere la morte… proprio come spesso fanno i medici, inconsciamente o addirittura consapevolmente.

La storia inizia con Vivian nel momento in cui riceve la comunicazione della sua malattia oncologica: un cancro alle ovaie al IV stadio che la ucciderà. Seguiamo, allo stesso tempo, grazie al montaggio cinematografico, alcuni ricordi della sua vita e gli eventi attuali della sua malattia. Vivian viene arruolata in uno studio di ricerca oncologica su un nuovo protocollo che prevede l’uso di un farmaco che i pazienti sembrano però non essere in grado di tollerare perché provoca troppi effetti collaterali per cui abbandonano la cura senza completarla. Harvey Kelekian, il medico/professore che propone a Vivian questo nuovo protocollo terapeutico, crede che lei potrebbe essere la persona in grado di farcela, e la paziente/professore accetta di impegnarsi in questo compito impossibile: portare a termine la terapia sperimentale. Dopo una serie di vicissitudini, diventa chiaro che Vivian morirà, che il giovane medico a cui è stata assegnata non si prende veramente cura di lei ma vuole solo portare a termine il protocollo, e che Susie Monahan, un’infermiera dell’équipe oncologica, riesce invece ad empatizzare con lei, a comprendere la sua rigidità da perfezionista come un segno di umana vulnerabilità. Allo stesso tempo, succede qualcosa di bello. La vecchia professoressa di Vivian (ormai ottantenne) viene a trovarla in ospedale e le racconta la storia di un coniglietto leggendola da un libro che aveva comprato in realtà per un suo nipotino. La professoressa Ashford, ora nonna, tratta Vivian come una bambina, facendola sentire amata, accettata e accudita, senza condizioni, senza l’obbligo di essere la studentessa migliore.

Nelle ultime scene del film l’infermiera e la paziente rimangono sole, insieme, nella stanza d’ospedale. E la paziente dice all’infermiera che non vuole più essere rianimata, anche se sa che questa decisione implicherà la sua uscita dallo studio sperimentale, il suo ‘fallimento’ nel portare a termine il protocollo. Infermiera e paziente suggellano la loro ‘alleanza’ mangiando un ghiacciolo… In un’altra scena Susie resta con lei, in silenzio… e spalma con le sue mani una crema sulle mani della paziente… una coccola, non una terapia ma solo un ‘prendersi cura’ di lei… Quando Vivian perde conoscenza ed il suo cuore cessa di battere, le macchine dell’ospedale registrano la sua morte imminente, e arriva la squadra d’emergenza… L’infermiera li ferma dicendo che la paziente aveva cambiato idea: non vuole più essere rianimata. Gli operatori sanitari si fermano e il film finisce.

La sequenza dei sogni nel workshop

 

Studentessa n. 1: “Ieri sera ho visto Wit in inglese, a casa… È stato utile, perché mi ha aiutato molto a riflettere sulle differenze tra gli ospedali italiani e americani, dove era ambientato il film. Il ruolo dell’infermiera, nell’ospedale americano, era molto più tecnologico rispetto alla mia esperienza personale di studentessa in tirocinio in un ospedale italiano. Nel mio sogno andavo all’università per partecipare ad un concorso perché il vincitore poteva andare a lavorare in America come infermiere. Ero in un’aula sconosciuta con un’altra candidata, che sembrava essere un’altra studentessa del mio corso di Infermieristica, ma non riesco a ricordare chi fosse. Comunque, nel mio sogno ero estremamente determinata a vincere e lasciare l’Italia!”

Studentessa n. 2: “Non ho visto tutto il film perché mi sono addormentato in alcune scene, più volte… Nel mio sogno ero in piedi davanti allo specchio nel mio bagno, mi pettinavo e ho
cominciato a vedere i miei capelli cadere in ciocche sul pavimento mentre molti capelli rimanevano anche sulla spazzola… Mi sono sentita terrorizzata e presa dal panico, anche se, nel profondo del mio cuore, sapevo di non essere malata.”

Studente n. 3: “Ho visto tutto il film, in italiano… Poi ho fatto un sogno. Mi trovavo su una nave fantasma, simile a quelle dei film sui pirati, in preda ad una tempesta, in mare. Ero sola sul ponte della nave che rollava sotto i miei piedi. Sapevo di essere sola e di essere stata abbandonata da tutti… Nel mio sogno mi sento spaventata e angosciata. Allora comincio a cercare una scialuppa di salvataggio per salvarmi e quando ne trovo una, sento, vicino a me, la presenza di una donna che aveva le sembianze della protagonista del film. Nel profondo sapevo di conoscerla, quindi le indico la scialuppa per invitarla a venire con me in modo che possa mettersi in salvo anche lei, ma lei era impassibile… ricordo che fissava l’orizzonte senza prestare attenzione alle mie parole! Poi sono andato nel panico visto che la tempesta era sempre più forte… allora ho provato a prenderle la mano con la mia, ma la mia mano ha attraversato quella della donna senza toccarla e, più aumentava la mia paura, più non riuscivo ad afferrarla affatto…”

[lungo silenzio]

Dott. Nesci: “Questo silenzio mi sembra molto significativo… il gruppo presenta qui tre sogni che confermano l’effetto di perturbante spaesamento che potremmo provare con i malati oncologici terminali e che rappresentano tre diverse situazioni emotive che potremmo vivere. L’intervento della prima studentessa ci parla dei nostri meccanismi di difesa: guardare il film in una lingua straniera, sognare che l’aula non ci è più familiare e che la collega è irriconoscibile. Il gruppo, attraverso il suo portavoce, la prima sognatrice, ci parla di una fuga dalle emozioni (l’Italia, paese sentimentale, culla della nostra lingua madre) e di una lotta per un approccio tecnologico: il concorso per vincere un lavoro in un ospedale americano, che significa abbandonare il vecchio mondo degli affetti e stabilirsi nel nuovo mondo della tecnologia. Il primo sogno potrebbe quindi rappresentare la nostra prima risposta emotiva inconscia nei confronti di un paziente affetto da cancro in stadio avanzato. È interessante notare che subito dopo questa prima reazione, e qui parlo del secondo sogno del nostro workshop, vediamo che potremmo rispondere anche con un altro sentimento (opposto), identificandoci completamente con il paziente. In questo secondo sogno, infatti, la studentessa di infermieristica sembra identificarsi completamente con la sua paziente. Le cadono i capelli, come accade alla protagonista del film. Qui il sogno sembra rappresentare una reazione empatica illimitata, al punto che la sognatrice deve rassicurarsi, anche nel sogno, di non essere malata come la paziente. Quindi, riflettendo sui primi due sogni, potremmo pensare che la nostra prima reazione, la fuga dal malato oncologico terminale, che abbiamo potuto scoprire grazie al primo sogno, sia probabilmente una conseguenza della nostra reazione inconscia di totale identificazione con il paziente, che appare direttamente nel secondo sogno. Rivediamo, a questo punto, la terza reazione emotiva inconscia emersa nel nostro workshop. Proviamo ad analizzare il nostro terzo sogno, quello più dettagliato, quello raccontato dallo Studentessa n. 3, l’unico che, tra l’altro, era stata in grado di vedere tutto il film… e di vederlo in italiano. Con il terzo sogno riusciamo a trovare una situazione di risposta intermedia, di mediazione, in cui gli operatori sanitari sanno che chi muore è il paziente: una donna che aveva le sembianze della protagonista del film, la ‘presenza’ che rimane sulla nave fantasma e non riesce ad imbarcarsi sulla scialuppa di salvataggio. Nel nostro terzo sogno la sognatrice si identifica con la paziente fino agli ultimi istanti della sua vita, sulla nave. Poi, dal momento in cui l’operatore sanitario non riesce a prendere per mano la sua paziente e condurla lontano dalla nave fantasma, poiché la paziente è morta, si separa e si imbarca da sola sulla scialuppa di salvataggio per continuare a vivere…”

Partecipanti: [molte voci insieme] “La mano! Le mani!”

Studentessa n. 4: “La scena del film in cui l’infermiera spalma la crema sulle mani della paziente! Ecco da dove nasce il sogno!”

Dott. Nesci: “Sì… L’ultima interazione tra infermiera e paziente è la scena in cui l’infermiera spalma con le proprie mani una crema sulle mani del paziente…”

Studente n. 5: “Anche la nave fantasma potrebbe avere a che fare con il cinema… il cinema è come una nave fantasma, un mondo immaginario che puoi vedere e sperimentare, ma non puoi
afferrare e portare con te!”

Dott. Nesci: “Il terzo sogno è come un film pieno di poesia, che racconta la storia di quel misterioso passaggio/momento in cui l’anima lascia il corpo e inizia il processo di lutto… Ma torniamo alla sequenza dei nostri sogni… suggerisco di non considerarli come tre diverse reazioni di tre infermieri diversi, ma di pensare che attraverso il nostro social dreaming guidato siamo tutti in
grado di recuperare il quadro completo di ciò che ognuno di noi sente e sperimenta nel proprio inconscio professionale. Ogni operatore sanitario si identifica totalmente con il paziente e, allo
stesso tempo, rifugge da questa identificazione troppo piena di pathos, troppo dolorosa, ricorrendo all’idealizzazione di un approccio tecnologico, ma riuscendo, allo stesso tempo, a mediare e a
trovare un’integrazione tra queste due opposte reazioni emotive, entrambe eccessive. Per essere adeguati nel nostro atteggiamento professionale dobbiamo essere capaci di comprendere che è il
paziente ad essere malato ed a poter anche morire, e che tutti noi, come operatori sanitari, dobbiamo esserne consapevoli e, dopo la fine delle cure, se il paziente muore, dobbiamo essere in grado di lasciare la nave, visto che ormai è una nave fantasma, per prendere la scialuppa di salvataggio e continuare la nostra vita personale e professionale”.

 

Conclusioni

 

Il workshop cinema e sogni è uno strumento che può essere impiegato con successo nella formazione di tutte le categorie degli operatori sanitari, perché parla un linguaggio semplice ed
universale: quello delle immagini e dei suoni. Ed è per questo che lo utilizziamo sia nei nostro corsi ECM sia nel training dei nostri psicoterapeuti nella nostra Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale (SIPSI).

 

Bibliografia

 

Beradt, Charlotte. 1966. The Third Reich of dreams – the nightmares of a nation, (1933–1939).
Chicago: Quadrangle Books.
Freud, Sigmund. 1919. “The Uncanny,” in S. Freud, The Standard Edition of the Complete
Psychological Works of Sigmund Freud, Vol. XVII, 219–252. London: The Hogarth Press and the
Institute of Psycho-Analysis.
Lawrence, Gordon W., ed. 1998. Social Dreaming at Work. London: Karnak Books.
Nesci, D.A. Il workshop cinema e sogni. Eidos, n. 10: pagg. 12-13, 2007.
Nesci, D.A. Psychological Care for Cancer Patients. Lexington Books, 2023.
Ogden, Thomas H. 2005. “On Psychoanalytic Supervision.” The International Journal of Psycho-
Analysis 86:1265–1280.