Racconti dalla quarantena: Esperienza onirica e narrazione letteraria a confronto

di Angelo Urbano

La sfera onirica dei pazienti risulta portatrice di numerosi elementi valutativi e di confronto durante il percorso psicoterapeutico, in modo particolare quando si attraversano periodi delicati o importanti della vita. A prescindere dalla ricchezza o scarsità di contenuti e dettagli, il sogno può rivelarsi come utile indicatore di una strada da percorrere, un’intuizione da seguire, un’idea da elaborare.

Nel caso di Giovanni, un paziente che ho seguito durante il periodo di quarantena per il Corona virus, le sue esperienze oniriche, seppur molto brevi e concise dal punto di vista narrativo, hanno fatto sorgere in me alcune associazioni con particolari racconti letterari che hanno affrontato, nelle diverse epoche storiche, la tematica del contagio.

Il primo sogno raccontato dal paziente è stato il seguente:

                              “Mi trovavo per strada ed ero travolto da un TIR.

                                      Mi sono risvegliato legato in ospedale”.

Un racconto apparentemente limitato ad una sola scena angosciante, è vero, ma che ha richiamato alla mente un’amara realtà vissuta in quei giorni tristi: il percorso lento e muto di carri militari carichi di vittime attraverso alcune città dell’Italia del Nord, particolarmente colpite dal virus.

In riferimento all’ambito letterario, spontaneamente è riemerso in me il ricordo del celebre racconto della pestilenza del Seicento narrato da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi.

Come in un remake narrativo si potrebbero sovrapporre l’immagine del TIR che corre veloce e travolge incurante di ogni umana pietas il sognatore, con quella dei moderni autocarri militari in terra lombarda, al lento incedere tra le strade di Milano dei carri dei monatti, uomini sopravvissuti all’infezione e addetti ai servizi più penosi e pericolosi: levar dalle case, dalle strade e dal lazzaretto i cadaveri, condurli sui carri alle fosse e sotterrarli, portare o guidare al lazzaretto gli infermi e governarli, bruciare, purgare la roba infetta e sospetta.

Seguendo un filo associativo, mi sono immaginato così, nell’ascolto del sogno del paziente, due silenziose processioni funebri, anacronisticamente legate da un elemento comune: lo spettro della morte. Mi domando, quindi, se il sogno riportato dal paziente non indichi un pathos inconscio di timore estremo per il rischio del contagio, il prelevamento dal suo domicilio e il conseguente trasporto in ospedale (il lazzaretto manzoniano) dove il ricovero in terapia intensiva implicherebbe l’essere intubato e, quindi, in un certo senso “legato” ad una macchina ospedaliera, proprio come succede nel suo sogno!

Questo è il brevissimo secondo sogno di Giovanni:

                                 “Ho sognato che mi rubavano la macchina”.

 Immediato, in questo caso, emerge il riferimento ad un classico della letteratura contemporanea, ovvero il romanzo Cecità di Josè Saramago. Uno dei testi di riferimento circa la narrazione delle dinamiche interpersonali scaturite dal diffondersi di un evento pandemico. In particolare, l’incipit dell’opera coincide perfettamente con la scena onirica del paziente. Un uomo, mentre è fermo ad un semaforo alla guida della sua automobile, diventa improvvisamente cieco. Cercando di comprendere l’accaduto crea un ingorgo, attirando l’attenzione di numerosi passanti. Tra questi, un giovane uomo si offre di aiutarlo accompagnandolo fino a casa alla guida della sua macchina. Tale gesto di generosità si scoprirà, in realtà, essere un escamotage per il furto della stessa automobile.

Quale simbolo di estensione del Sé al di fuori della tradizionale abitazione ed in riferimento alla situazione di restrizione e limitazione spazio-temporale vissuta durante il periodo di lockdown, potremmo interpretare il furto della macchina proprio come un’azione di sottrazione del livello di autonomia e, conseguentemente, di libertà di movimento causata dalla perdita del mezzo da parte di un agente esterno. Il timore conscio di restare confinati in casa senza una via d’uscita si insinua a livello inconscio nella sfera onirica producendo angoscia e preoccupazione.

Il terzo sogno, o meglio incubo, del paziente è stato il seguente:

                “Mi sono svegliato agitato e sudato perché non potevo muovermi,

                        avevo una gamba bloccata a causa di un crampo”.

Questo risveglio da un incubo scomparso dalla memoria del paziente, riprende e conferma il sogno precedente, e cioè l’angoscia del lockdown come “furto della macchina” e quindi della possibilità di movimento. Qui sono i crampi a bloccarlo… C’è una profonda angoscia di morte (agitazione e sudore, che possono causare i crampi) ma l’epidemia non è ricordata né nominata.

Quasi al termine del periodo di quarantena, quando ormai iniziava ad intravedersi uno spiraglio di ripresa, il paziente, con mia grande sorpresa, ha raccontato non un suo sogno bensì quello di sua madre fatto qualche giorno prima della seduta. L’interesse, in questo caso, oltre al contenuto, è chiaramente rivolto al meccanismo di spostamento avvenuto tra lui e la figura genitoriale. Queste le sue parole:

                “Mi ha colpito molto il sogno che ha fatto mia madre l’altro giorno. 

                  Parlava con mio padre che era molto preoccupato.”

Il pensiero di un padre preoccupato durante un periodo così difficile, mi ha ricordato un passo del Decameron celebre componimento di Boccaccio ambientato durante la peste del 1348 in cui, a causa del diffondersi del contagio, vengono meno tutti i principi di affetto ed i legami di sangue: “E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.”

Ho riflettuto, quindi, su quanto il paziente fosse in cerca di attenzioni e di quanto della preoccupazione del padre, nel sogno di sua madre, avesse bisogno proprio lui e desiderasse, letteralmente, appropriarsene, per ottenere consolazione, cura ed amore famigliare.

Conclusioni

Ne “La maschera della Morte Rossa” (Poe, 1848) una terribile epidemia scatena una profonda angoscia di morte che suscita una difesa perversa nell’élite del potere locale, capeggiata dal principe Prospero, che si isola con un migliaio di amici nel suo palazzo illudendosi di poter sfuggire così al contagio, mentre il popolo veniva decimato dal morbo o si dava alla fuga, abbandonando il paese, per salvarsi.  Il principe organizza un ballo in maschera ma lì la Morte Rossa riuscirà ad introdursi uccidendoli tutti.

Riflettendo, insieme al Dr. Nesci, su queste mie associazioni letterarie, concluderei ipotizzando che l’egoismo, la cecità affettiva, siano il vero Male che minaccia di uccidere l’umanità, come raccontano all’unisono gli scrittori di ogni epoca. La nostra speranza, come psicoterapeuti DREAMS, è che la psicoterapia online, praticata a tariffe di privato sociale per renderla avvicinabile da tutti, possa contribuire a superare la tendenza ad isolarsi nei “palazzi” in un delirio megalomanico di onnipotenza.

Riferimenti Bibliografici​

Boccaccio G. (1353), Decameron, Rizzoli, Milano, 2013

Edgar A.P. (1842), La maschera della morte rossa, in I racconti del terrore, Mondadori, Milano (2017)

Freud S. (1899), L’interpretazione dei sogni, in “Opere”, vol. III, Boringhieri, Torino, 1966.

Freud S. (1900), Il sogno, in Opere, vol. IV, Boringhieri, Torino, 1970.

Manzoni A. (1827), “I promessi sposi”, Mondadori, Milano, 2016.

Saramago J. (1995), Cecità, Feltrinelli, Milano.

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